LA CHIAMATA ALL’IMPOSSIBILE (RITIRO MARIANO)

D. Enrico Lupano, sdb.

L’ANNUNCIAZIONE

26Nel sesto mese, l`angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». 29A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. 30L`angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e chiamato Figlio dell`Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34Allora Maria disse all`angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». 35Le rispose l`angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell`Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. 36Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: 37nulla è impossibile a Dio ». 38Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l`angelo partì da lei. 

“La prima parola di Maria non è un sì, ma una domanda: come è possibile? Sta davanti a Dio con tutta la sua dignità umana, con la sua maturità di donna, con il suo bisogno di capire. Usa l’intelligenza e poi pronuncia il suo sì, che allora ha la potenza di un sì libero e creativo. Eccomi, come hanno detto profeti e patriarchi, sono la serva del Signore. Serva è parola che non ha niente di passivo: serva del re è la prima dopo il re, colei che collabora, che crea insieme con il creatore. «La risposta di Maria è una realtà liberante, non una sottomissione remissiva. È lei personalmente a scegliere, in autonomia, a pronunciare quel “sì” così coraggioso che la contrappone a tutto il suo mondo, che la proietta nei disegni grandiosi di Dio» (M. Marcolini). La storia di Maria è anche la mia e la tua storia. Ancora l’angelo è inviato nella tua casa e ti dice: rallegrati, sei pieno di grazia! Dio è dentro di te e ti colma la vita di vita”. (Ermes Ronchi). 

IL SOGNO DEI NOVE ANNI

[C1] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.

  • Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.
  • In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si  raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
  • Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?» «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?» «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». «Il mio nome dimandalo a Mia Madre». 
  • In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti  mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai». 

[C2] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto inalfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. (…) 

 

I SOGNI DI DON BOSCO: QUESTIONI INTRODUTTIVE 

Prima di presentare il sogno dei nove anni ci soffermiamo alcuni istanti su alcune questioni introduttive. Ci facciamo aiutare da don Andrea Bozzolo nel suo intervento sul “Il sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica”. 

I sogni costituiscono un elemento molto prezioso dell’esperienza spirituale e della sapienza educativa di don Bosco. Essi non possono in alcun modo essere ridotti a semplici racconti edificanti, ma, pur non avendo tutti lo stesso valore, costituiscono fonti di grande rilievo che meritano di essere studiate e approfondite per molti motivi.  

  1. Un primo e fondamentale motivo consiste nel fatto che don Bosco stesso ha attribuito ad alcuni di essi una valenza ispiratrice e, in vari modi, se n’è lasciato guidare. (…) 

Senza dubbio don Bosco ha accolto il messaggio dei sogni con prudenza, li ha sottoposti a un lungo discernimento spirituale e non li ha mai intesi come una via alternativa alla ricerca orante della volontà di Dio. (…). Nonostante le cautele con cui don Bosco si è servito dei sogni, è innegabile che molti aspetti dell’Oratorio e la stessa fondazione della Congregazione salesiana sono intrecciati in maniera così stretta con essi, che difficilmente si potrebbe intendere in tutta la sua ricchezza l’avventura spirituale del prete di Valdocco trascurandone l’apporto.  

  1. Un secondo motivo che spinge a dedicare una particolare attenzione a queste pagine va ritrovato nel fatto che alcune di esse si presentano come documenti spirituali di altissimo valore, in cui è possibile ritrovare, nella forma evocativa tipica dei simboli onirici, l’espressione sintetica dei tratti costitutivi del carisma salesiano. (…).  
  2. Un terzo motivo, infine, può essere individuato nel fatto che tali pagine offrono non di rado un accesso al mondo interiore di don Bosco, che difficilmente si può ritrovare negli altri suoi scritti. (…). Tutti sappiamo quanto don Bosco fosse poco incline a parlare di sé e molto sobrio nel confidare i moti del proprio animo. (…). Eppure i racconti dei sogni – di alcuni in particolare – fanno a nostro avviso eccezione. Mentre li racconta, infatti, don Bosco non può fare a meno di mettere a nudo il proprio cuore, di lasciar intravedere il ricco mondo delle sue emozioni: (…). Mentre racconta i sogni, don Bosco inevitabilmente racconta di sé, di quel “sé” profondo che molte volte rimane pudicamente nell’ombra quando egli descrive lo sviluppo della sua opera o quando compone testi destinati all’istruzione del popolo di Dio o alla catechesi dei suoi giovani.  

 

LA CHIAMATA ALL’IMPOSSIBILE

Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su una pista di riflessione spirituale: la chiamata all’impossibile.  

Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.  

Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).  

Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6),  Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. 

Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.   

Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). 

Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27). 

Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare. «Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.  

Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. 

Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».  

Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.  

 

LA VITA CONSACRATA: LUOGO DOVE L’IMPOSSIBILE DIVENTA POSSIBILE

La vita consacrata oggi può essere uno dei luoghi profetici dove il Signore può trasformare l’impossibile in possibile. La giovinezza di Maria e di Giovannino, il “non conoscere uomo” della Madonna o l’enormità della missione affidata al pastorello dei Becchi, sono “l’impossibile”, la “minorità” della vita consacrata odierna. Guai se ci lasciamo prendere dalla tristezza e dalla rassegnazione. “Senza accorgerci, ogni volta che pensiamo o constatiamo che siamo pochi, o in molti casi anziani, che sperimentiamo il peso, la fragilità più che lo splendore, il nostro spirito comincia ad essere corroso dalla rassegnazione. E la rassegnazione conduce poi all’accidia (…). Quando ci prende la rassegnazione, viviamo con l’immaginario di un passato glorioso che, lungi dal risvegliare il carisma iniziale, ci avvolge sempre più in una spirale di pesantezza esistenziale. (…). E la tentazione sempre è cercare le sicurezze umane (…). «Lo sguardo di fede è capace di riconoscere – dice la Evangelii gaudium la luce che sempre lo Spirito Santo diffonde in mezzo all’oscurità, senza dimenticare che “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20). La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che cresce in mezzo della zizzania» (n. 84). (Incontro di papa Francesco con i sacerdoti e i religiosi nella visita a Milano del 25 marzo 2017). 

La vita consacrata come luogo di frontiera, luogo dell’impossibile trasformato in possibile. Luogo dell’imprevisto, dell’inedito, dell’originale; fuori dalle consuetudini scontate e rassicuranti; laboratorio attrezzato per la costruzione dell’uomo nuovo, sempre in attesa di futuro; spazio d’inclusione, senza chiusure, senza pregiudizi, ove le diversità sono accolte e riconciliate tra di loro in un’armonia non perfetta ma reale e comunionale. Luogo dove è spezzato il pane della carità per i tanti affamati di Dio.. 

La vita consacrata, nonostante ombre e difficoltà, è un’esperienza intensa di fede e di relazione con il Signore; ed è tutt’altro che disinteresse per la storia e per il destino degli uomini. Ancora oggi, sembra dire papa Francesco, è un prezioso spaccato di vita evangelica, uno spazio di servizio e di profezia, una riserva di coraggio e sapiente follia. La missione dei consacrati è al servizio del bene comune, delle città, delle famiglie: non mera distribuzione del benessere materiale, ma promozione del valore della persona, di ogni uomo e donna. I consacrati aiutano a superare la crisi antropologia in atto, il vuoto di tante esistenze, catturate da una falsa idea di autonomia, rinchiuse nella propria individualità. Il mondo ha bisogno dei consacrati e non solo la Chiesa. 

I cittadini di tutto il mondo pensano ai consacrati con simpatia e riconoscenza per tutto il bene che da essi hanno ricevuto, per le numerose istituzioni cartitative ed educative di cui è ricca la storia dei religiosi. Ogni comunità ecclesiale li immagina al proprio fianco nel difficile compito di formare le coscienze a una fede vigile e operosa, immersa nella concretezza delle difficili situazioni in cui versano le famiglie. Si tratta di una preziosa risorsa, insostituibile per la nuova evangelizzazione. La vocazione a una vita integrale può essere di grande stimolo per una città e un mondo dove regna spesso il pressapochismo, l’arte di arrangiarsi, la cultura dell’effimero, giocando al ribasso ed elevando la furbizia a regola di vita. 

ALCUNI “IMPOSSIBILI” CHE NELLA VITA RELIGIOSA DIVENTANO “POSSIBILI”

Dalla tristezza alla gioia 

Il primo impegno è quello di essere persone felici, contente, realizzate, gioiose, perché «Dove ci sono i religiosi c’è gioia». Siamo chiamati a «sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa cattolica, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita. Che tra di noi non si vedano volti tristi, persone scontente e insoddisfatte, perché “una sequela triste è una triste sequela”». Il senso della gioia cristiana è il Cristo crocifisso e risorto. La vita consacrata non cresce se organizziamo delle belle campagne vocazionali, ma se le giovani e i giovani che ci incontrano si sentono attratti da noi, se ci vedono persone felici! Perché la Chiesa cresce per attrazione e non per proselitismo! 

Dal sonno al risveglio. 

Il secondo impegno è relativo alla profezia: «Mi attendo che “svegliate il mondo”, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia». Il profeta è la coscienza critica d’Israele, il vento nuovo, colui che sa discernere i segni dei tempi e leggere anche le azioni o gli interventi di Dio nella storia. «Il profeta riceve da Dio la capacità di scrutare la storia nella quale vive e di interpretare gli avvenimenti: è come una sentinella che veglia durante la notte e sa quando arriva l’aurora (cf. Is 21,11-12). 

Conosce Dio e conosce gli uomini e le donne suoi fratelli e sorelle. È capace di discernimento e anche di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte […]. A volte, come accadde a Elia e a Giona, può venire la tentazione di fuggire, di sottrarsi al compito di profeta, perché troppo esigente, perché si è stanchi, delusi dai risultati. Ma il profeta sa di non essere mai solo. Anche a noi, come a Geremia, Dio assicura: «Non aver paura […] perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1,8). 

Siamo piccoli profeti, ciascuno con il nostro cono d’ombra. Quello che conta è, però, il fatto che siamo in grado di lasciarci irradiare dalla luce, di stivare dentro di noi la luce. Non siamo testimoni dei comandi del Signore o della sua forza o dei suoi castighi, neanche del suo giudizio, bensì della sua luce. Siamo luce di quel Dio liberatore che è venuto in Cristo Gesù a salvare e a sanare, a consolare e a guarire.

Il Precursore prepara la strada a uno che è venuto e ha fatto risplendere la vita (cf. 2Tm 1,10). Come il Battista, noi siamo la voce di un Dio appassionato, innamorato dell’uomo. Noi siamo voce abitata da un altro, dall’Altissimo. Solo Dio è la Parola, noi siamo l’eco della Parola. Io sono voce quando sono profeta, quando trasmetto parole lucenti e parlo del sole, del bene, del bello, dell’amore, gridando nel deserto delle nostre comunità e città come Giovanni, o sussurrando al cuore ferito dei nostri fratelli come il profeta Isaia. 

Svegliare il mondo è possibile se anzitutto ridestiamo noi stessi, se con la preghiera e la fiducia nel Signore sappiamo muovere il bene e diffonderlo nelle comunità. La forza del male è nel nascondimento. La forza del bene è nella luce, nella rivelazione. Il male si diffonde con le chiacchiere, con i cattivi pensieri, con le gelosie, le invidie, la pigrizia. Il bene si muove con lo zelo, con la passione, con la forza di chi è innamorato e attratto dall’amore di Dio. Il Battista sembra dirci che il mondo si regge su un principio di lue e non sulla prevalenza del male, che vale molto di più accendere la nostra lampada nella notte che imprecare e denunciare il buio. 

 

Dall’isolamento alla comunione 

Il papa ci chiede ancora di essere “esperti di comunione”, ossia persone che vivono concretamente la “spiritualità della comunione”, indicata da san Giovanni Paolo II. In quest’ottica, la fraternità è dono e compito, progetto e missione, sfida e sacrificio da compiere. Papa Francesco s’appella a un principio caro alla tradizione spirituale cristiana: il principio veritativo della fede – dell’amore per Dio – è l’amore per il prossimo, per chi vive con noi. L’amore per Dio, la contemplazione delle Scritture e la vera fede aprono a una comunione orizzontale che ci rende estroversi, ossia rivolti verso gli altri e non ripiegati su noi stessi per accogliere le attese dell’umanità. Ci sono, infatti, scrive il papa, «persone che hanno perduto ogni speranza, famiglie in difficoltà, bambini abbandonati, giovani ai quali è precluso ogni futuro, ammalati e vecchi abbandonati, ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore, uomini e donne in cerca del senso della vita, assetati di divino… Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare dalle piccole beghe di casa, non rimanete prigionieri dei vostri problemi. Questi si risolveranno se andrete fuori ad aiutare gli altri a risolvere i loro problemi e ad annunciare la buona novella. Troverete la vita dando la vita, la speranza dando speranza, l’amore amando». 

Dall’egoismo alla carità 

Il quarto impegno riguarda la carità: il papa si aspetta dai consacrati «gesti concreti di accoglienza dei rifugiati, di vicinanza ai poveri, di creatività nella catechesi, nell’annuncio del Vangelo, nell’iniziazione alla vita di preghiera. Di conseguenza auspico lo snellimento delle strutture, il riutilizzo delle grandi case in favore di opere più rispondenti alle attuali esigenze dell’evangelizzazione e della carità, l’adeguamento delle opere ai nuovi bisogni».  

Dalla sicurezza alla domanda 

Nel quinto impegno il papa chiede che ogni forma di vita consacrata s’interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano. Occorre dare spazio alla fantasia dello Spirito che ha generato modi di vita e opere diversi per andare verso le periferie esistenziali dell’umanità. 

DOMANDE PER LA RIFLESSIONE 

  • Siamo pronti, personalmente e come comunità, a vivere queste sfide e a prendere tali impegni? 
  • Quali i segni di carità e di impegno sociale da portare avanti? 
  • Siamo in grado di prendere parte alle nuove forme di evangelizzazione? 
  • In che cosa stiamo dormendo? Sentiamo la passione per il Vangelo? 
  • Non è forse vero che la prima forma di annuncio è da vivere in fraternità?

Enrico Lupano, sdb.

 

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